NOI, LA FIORENTINA

La Fiorentina compie 85 anni e, per l’occasione, il Museo Fiorentina e Giglio Amico hanno voluto ricordare questa importante ricorrenza con un’opera composta da testimonianze e ricordi dei protagonisti della storia viola. In più, racconti scritti dai migliori giornalisti del panorama fiorentino e nazionale e molti altri contributi, alcuni dei quali davvero speciali come quello di Franco Zeffirelli e, ovviamente, del capitano Giancarlo Antognoni.

Tra poco saranno trent’anni, anche se a me non sembra proprio che sia trascorso così tanto tempo. Sarà che me lo ricordo come se fosse successo ieri. Come ogni domenica a pranzo, la famiglia si era riunita per mangiare in casa dei nonni materni, allora c’ erano ancora tutti e due, e subito dopo pranzo io, il babbo e la zia andammo allo stadio. Mio fratello, anche se dopo sarebbe diventato un tifoso viola sfegatato, capace di viaggiare anche un giorno intero in pullman per seguire la Fiorentina nelle trasferte importanti, a quei tempi era ancora troppo piccolo e rimaneva a casa con la mamma a sentire alla radio “Tutto il calcio minuto per minuto”. Nel salottino di casa mi mettevo gli immancabili guanti e sciarpa rigorosamente viola, prima di uscire accompagnato dalle ultime raccomandazioni materne.

– “Copriti bene la gola, sennó tu t’ ammali! Tu lo sai, a te ti basta niente!” –

A quei tempi, durante il pomeriggio, ci si doveva accontentare di ricevere qualche notizia sportiva solo pochi minuti prima dell’inizio delle partite e i collegamenti dagli stadi avvenivano solo per radio. Eh sì, alla radio, perché agli inizi degli anni ’80 le prime immagini delle partite si potevano vedere solo dalle sei del pomeriggio, quando iniziava la storica trasmissione “90º minuto”, condotta dal mitico giornalista sportivo Paolo Valenti, non a caso tifoso della Fiorentina; un appuntamento immancabile per ogni tifoso D.O.C..

Quella domenica di fine novembre del ’83, con il cielo terso, un sole timido e un freddo tremendo che ti entrava dentro le ossa, in pieno rispetto del classico autunno inoltrato fiorentino, si giocava l’attesa partita Fiorentina – Juventus. Il viale dei Mille era una lunga colonna di auto e come sempre c’era da parcheggiare la macchina, la Ritmo Diesel color cacchina, come ci si divertiva tutti a chiamarla per ridere. Anche se prima non c’erano tante macchine come al giorno d’oggi, non era così facile trovare un posto dove lasciarla che non fosse lontano dallo stadio e rimanesse fuori dal percorso per il quale sarebbero potuti passare gli avversari, soprattutto in caso di una loro sperata e desiderata sconfitta.

– “Babbo, si prende i’ panino co’ la porchetta?” –

– “O’ ch’ ha’ fame? ci siam’ arza’i ora da ta’ola.” –

– “Pé’ dopo, così fò merenda!” –

– “Ven via, o’ pìgliagnene ’hi, e li fanno più bòni che dentro.” –

Fuori dallo Stadio Comunale, come si chiamava allora l’Artemio Franchi, gruppi di tifosi tutti bardati intonavano cori per scaldare gli animi e prepararsi allo scontro. Cantavano varie canzoni, ma ce n’ era una che, come un inestinguibile rumore di fondo, risuonava costantemente: “Juve, Juve, vaffanculo!”. A undici anni era tutto un lusso quello di poter urlare ad alta voce una parolaccia senza il rischio di prendere uno scapaccione. Dopo aver girato intorno allo stadio, ci dirigemmo all’ ingresso della Maratona per salutare tutti gli amici della domenica, tra i quali c’era sempre una signora che si avventava sulle mie guance tormentandole fino a farmi venire voglia di tirarle un calcio.

– “Ma come gl’è bellino i’ su’ figliolo!” –

A quei tempi gli spettatori della Maratona erano dei tifosi disposti a stare stivati per più di due ore pur di vedere la loro squadra, abituati com’erano a guardare le partite in piedi, accalcati all’inferriata che divideva i tifosi dal campo; mi ricordo di averla toccata anch’io qualche volta. Lo stadio si riempiva fino a diventare un enorme tappeto di persone, mentre oggi i posti sono obbligatoriamente a sedere, per cui ce ne entrano molte meno. Una volta raggiunto il nostro settore, cercavamo il solito posto e come sempre c’era il solito problema.

– “Babbooo, ’un vedo nulla. C’è la testa di quello lì che mi tappa tutto!” –

Era un classico. Ogni volta rimanevo sommerso da tutti gli adulti che mi circondavano e, irrimediabilmente, al mio babbo non rimaneva altro da fare che accompagnarmi un paio di gradinate più giù e chiedere a quelli che avevano già preso posto di farmi un po’ di spazio.

La Curva Fiesole era un mare viola fatto di sciarpe, cappelli e striscioni agitati al ritmo dei cori; allora, poi, nelle curve si potevano portare anche i tamburi e i fumogeni per le coreografie e lo spettacolo era ancora più coinvolgente. Era meravigliosa la sensazione di sentirsi avvolti dai cori dei tifosi ed essere parte di quel mondo!

Quando iniziarono a leggere la formazione della Juventus, un’ondata di fischi, che durò tutto il tempo in cui vennero letti i nomi dei giocatori, coprì completamente la voce dell’altoparlante. Mentre io me la ridevo contento, perché non si era sentito nemmeno un nome dei gobbi – a Firenze gli juventini non hanno altro nome –. Invece, quando lessero la formazione della Fiorentina, ogni nome venne accompagnato da un bel sonoro “Olé!” dei tifosi e alla fine vennero lanciati in aria migliaia di foglietti di carta; erano così tanti che per un momento, come un’enorme nuvola bianca, riuscirono a coprire lo sfondo viola che avevo avuto davanti agli occhi fino a quel momento. Pochi secondi dopo iniziò l’inno della Fiorentina.

– “Alé Fiorentina, maledetta Toscana…” –

Quello era un buon segnale, perché voleva dire che la partita stava per iniziare e allora il freddo, come per magia, avrebbe smesso di farsi sentire. Anche se poi successe, come spesso accadeva, che fu ritardato l’inizio, perché si dovette attendere che il fumo dei fumogeni svanisse. Poco a poco, tutto, ma proprio tutto, diventò viola, di un bel viola denso che ti avvolgeva completamente fino a non farti vedere nemmeno le tue stesse mani; come se la passione che tanti tifosi sentivano verso la loro squadra fosse diventata qualcosa di tangibile. Mentre il tipico odore di polvere bruciata dei fumogeni invadeva le narici di tutti quanti. Negli anni ’80 l’ inno dei Viola, scelto dai Pontello che gestivano la squadra, non piacque mai molto ai tifosi. Per quello che mi ricordo, la disapprovazione nasceva da quel “maledetta Toscana” che nessuno apprezzava, perché conflitti storici a parte, un fiorentino si sente anche pienamente toscano. Nel ’90, con l’arrivo dei Cecchi Gori, venne recuperata l’ orgogliosa “Canzone Viola”, cantata dall’inconfondibile voce di Narciso Parigi – “Garrisca al vento il labaro viola…” –. Chi l’ avrebbe poi mai detto che quei versi – “nell’ ora di sconforto e di vittoria, / ricorda che del calcio è tua la storia!” – un giorno mi avrebbero fatto sentire orgoglioso di rappresentare la fiorentinità, anche in ambito sportivo, oltre i confini del nostro Paese.

La partita iniziò subito male. Dopo un paio di minuti i gobbi ci fecero subito un gol e un sentimento di sconforto e rabbia fece subito capolino dentro tutti noi. Meno male che una decina di minuti più tardi il nostro capitano Giancarlo Antognoni – riconosciuto dai tifosi viola come l’unico “10” e per il quale tutt’oggi in Curva Fiesole sventolano bandiere in suo onore – riuscì a riportare il risultato al pareggio. Eravamo di nuovo felici. Peccato però che la felicità durò poco, perché una ventina di minuti più tardi i nostri avversari ritornavano in vantaggio con un gol dell’antipatico Michel Platini. Così ci ritrovammo di nuovo con l’umore sotto i piedi. La serie di parolacce che ascoltai me le tenni tutte per me, perché se solo avessi pensato di ripeterle, anche solo come fatto di cronaca, altro che scapaccioni avrei raccattato! D’altra parte, dalle nostre parti si è sempre fatto molto uso delle parolacce. Non a caso si racconta che la Confraternita della Misericordia nacque a Firenze nel Duecento, quando un artigiano stanco di sentir tanto blasfemare, propose di versare un contributo per ogni bestemmia detta alla società che a quei tempi si occupava dei malati. Quando finì il primo tempo, ero così demoralizzato che non riuscivo a pensare ad altro che alla dolorosa e probabile sconfitta in casa; contro la Juve poi!

– “Che l’ ha’ bel’ e-mangia’o i’ panino?” –

– “Babbo, si perde…” –

– “Eh… Che vò’ andà’ im-bagno?” –

Risposi con un cenno della testa che non mi scappava, mentre stringevo il panino tra le mani e la pipì tra le gambe.

– “Dai, allora mangia. Ora ti porto um-po’ d’acqua.” –

Per fotuna però, non era ancora stata detta l’ultima parola, perché c’erano altri quarantacinque minuti di gioco. Infatti, non appena iniziò il secondo tempo il nostro “puntero” argentino, Daniel Bertoni, segnò subito un gol e una manciata di minuti più tardi ne mise in rete un altro portandoci per la prima volta in vantaggio dall’inizio dell’incontro. Ora si che c’era da stare felici e quante emozioni tutte insieme! Prima si perde, poi si pareggia, poi di nuovo in svantaggio, di nuovo in pareggio e ora, dopo un pugno di minuti, la vittoria. Tutti i tifosi intorno a me urlavano come matti, anche la signora torci-guance, cosicché del freddo ormai non se ne ricordava più nessuno. Ma si sa, la palla “l’è tonda”, come si dice dalle nostre parti, e fu così che a una decina di minuti dalla fine, il nostro terzino Renzo Contratto, per cercare di deviare un tiro degli avversari, finì per segnare un autogol. Adesso sì che non ci si poteva credere. Dopo tutta la fatica fatta per ribaltare la situazione era accaduto che l’avevamo ribaltata un po’ troppo. Successe poi un fatto che sarebbe divenuto curioso solamente molto tempo dopo, perché a quei tempi non lo potevamo certamente sapere. Dopol’autogol, la Juventus fece entrare in campo Cesare Prandelli, sul quale i tifosi scaricarono tutta la rabbia della frustrazione e venne letteralmente sommerso da un terremoto di fischi. Trent’ anni dopo però, lo stesso Prandelli sarebbe diventato l’allenatore della nostra squadra e uno degli idoli della tifoseria viola. Comunque, anche se l’incontro finì 3-3, tornai a casa con una sensazione d’insoddisfazione, perché avevamo quasi ottenuto la sconfitta degli avversari più odiati, ma non ci eravamo riusciti del tutto.

Bisogna dire che quella del 1983-’84 fu una delle più belle stagioni per i nostri Viola, anche se nel 1984 Giancarlo Antognoni si fratturò gravente la tibia e il perone; sfortunato evento che arrestò bruscamente la corsa verso il terzo scudetto, che tutti ci sentivamo già tra le mani.

Stefano Rosi Galli Madrid, 2:10 A.M. 21 febbraio 2011

Estratto da “Noi, la Fiorentina”, pp. 185-187